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Neolingue e censura digitale

L’irruzione repentina e massiccia del web nella vita quotidiana ha avuto, così come successo con altri fenomeni di massa, quali il cinema e la televisione solo per citarne alcuni, un’incidenza non da poco sul nostro modo di parlare e di scrivere. Rivoluzione che si è manifestata sia in campo lessicale che semantico. Questo ha contribuito al proliferare di parole e linguaggi diversi per esprimere lo stesso concetto, oppure all’adozione di termini ed espressioni tali da spingere maestre ed insegnanti di lettere sulle barricate o a minacciare la tanto temuta penna non rossa ma blu.

Tendenza che si è accentuata soprattutto negli ultimi anni, causa anche il lungo periodo di pandemia, in cui si è assistito alla trasposizione della comunicazione, soprattutto quella scritta, nella dimensione telematica. Ciò ha dato una spinta notevole a quel fenomeno etichettato come algospeak, ossia un modo di parlare, o sarebbe meglio dire scrivere, frutto dell’unione dei termini inglesi “algorithm” e “to speak”. In altre parole un linguaggio alternativo capace di raggirare i controlli dell’IA (Intelligenza Artificiale) nella moderazione e distribuzione dei contenuti.

Per farsi un’idea del problema basti pensare che il Digital News Report di fine 2022 rilevava che Facebook ha quasi tre miliardi di utenti attivi al mese, YouTube oltre due miliardi e TikTok ben oltre 1 miliardo. E come è intuibile, non sono affatto passivi, ma scrivono, fotografano, si riprendono e, naturalmente, pubblicano. Un traffico immenso di contenuti che per essere controllato necessita di un aiuto “non umano”, ed è per questo che i social network si affidano a filtri computazionali che utilizzano algoritmi di categorizzazione i quali, partendo da un elenco di parole vietate, si perfezionano man mano che il software impara il linguaggio umano.

Naturalmente non si tratta di un neo-puritanesimo linguistico o mera salvaguardia di utenti minorenni, per giunta la fetta più grande dei fruitori dei social network, che occorre giustamente proteggere e salvaguardare da contenuti inappropriati (morte, suicidio, sesso, razzismo, violenza, pedopornografia, etc.), così come si presenta sterile già in partenza la discussione sulla libertà di parola e di espressione. E’ anche, o soprattutto, una questione di soldi: sui social i materiali che contengono parole “vietate” non solo vengono bloccati o rimossi, e quindi non raggiungono un ampio pubblico, ma rischiano di essere demonetizzati con relativo abbassamento dei livelli di CPM (Cost Per Mille) ed RPM (Revenue Per Mille). Ciò con notevoli ripercussioni negative sui guadagni di chi li ha creati.

algosp

L’utilizzo dell’argot, ossia di un linguaggio in codice, al fine di ingannare l’autorità non è certo una novità, basti pensare al Cockney o, volendo restare in ambito digitale, al Leetspeak. La vera novità, questa volta, risiede nel fatto che si ricorre ad un linguaggio fantasioso che adopera parole traslate, eufemismi, termini rimpiazzati da emoji o parole-sostitute oppure appositamente storpiate, per sfuggire all’occhio indiscreto dell’onnipotente algoritmo.

Se in alcuni casi il richiamo ad un linguaggio esopico potrebbe essere giustificato in contesti autocratici dove risulta difficile esplicitare liberamente il proprio pensiero, in altri l’utilizzo diffuso e rigido dei filtri algoritmici rischia di minacciare seriamente la chiusura di importanti argomenti di discussione.

Al momento attuale le maggiori ripercussioni sono rilevabili nella lingua inglese, forse per la maggior plasticità che la contraddistingue rispetto ad altri idiomi o, semplicemente, perché è in quella lingua che si sono svolti i primi studi sul fenomeno. Quello che è sicuro è che si tratta di una battaglia senza vincitori le cui uniche vittime, al momento, sembrano essere le regole del linguaggio in generale.

                                                                                     Clemente Porreca

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