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La sordità di Beethoven e quella della scuola

Il 16 dicembre scorso si è celebrato il 250° anniversario dalla nascita di Ludwig Van Beethoven, probabilmente il musicista più eseguito nel mondo, noto a tutti per l’icastica incisività dei suoi temi, la sordità, il titanico volontarismo. Si è trattato di una ricorrenza sfortunata, caduta tra i divieti imposti dalla pandemia, che hanno in gran parte obbligato a cancellare o rinviare i concerti previsti per onorarla doverosamente.

Beethoven è stato il primo musicista moderno, il primo compositore che non è più un servitore della Chiesa o di un aristocratico, un artigiano, ma un libero pensatore. Con lui comporre musica non è più un mestiere che impone obblighi più o meno umilianti: il musicista diventa un intellettuale, che - pur nel rispetto delle logiche imposte dall’istituto della commissione - difende e afferma la propria autonomia creativa. Sul piano strettamente musicale la sua carica innovativa è enorme, se si pensa che nel suo stile la gerarchia e la funzione dei vari parametri (armonia, melodia, intensità, ritmo) sono pensati per la prima volta alla luce di una concezione della musica come linguaggio autonomo, basato su una precisa logica interna. Il suo è un modo nuovo, narrativo e drammatico, di comporre, spesso partendo da un semplice gesto musicale, da un tema, che però poi si trasforma in una complessa costruzione ricca di contrasti, di mutamenti, di accumuli tensionali solo alla fine conciliati e risolti.

Un simile rivoluzionario è però noto ai non addetti ai lavori per lo più per la sordità, la menomazione che cominciò ad affliggerlo intorno ai trent’anni e che andò progressivamente peggiorando per tutta la sua vita.

Inizialmente il problema uditivo riguardò solo la sfera del parlatoIl compositore percepiva le voci, ma non riusciva a distinguere chiaramente le parole. Successivamente, cominciò ad avere difficoltà nel percepire anche i suoni, e quindi la sua stessa musica. La famosa lettera scritta il 6 ottobre 1802, nota come il Testamento di Heiligenstadt, documenta da un lato la profonda crisi esistenziale, il forzato isolamento causato dal danno incipiente; dall’altro la decisa volontà di vincere la propria condizione. Si spiegano così espedienti come tagliare le gambe al pianoforte, in modo che posando l’orecchio sul pavimento si potessero percepire le vibrazioni prodotte dallo strumento. Oppure costruire una grande scatola che fungeva da cassa di risonanza attorno alla tastiera. I biografi parlano anche di una bacchetta di ottone che il compositore teneva tra i denti, mentre suonava, per avvertire nelle ossa del cranio le vibrazioni del pianoforte.

beethoven

Che cosa sa il mondo della scuola della vicenda umana di Beethoven? Poco. E della sua produzione musicale? Nulla. Se escludiamo i licei musicali in Italia, come si sa, la musica è confinata ai tre anni della scuola media. Per fare un paragone, in Germania il percorso di studi della musica nelle scuole pubbliche dura tra i 12 e i 13 anni a seconda degli indirizzi. E’ paradossale pensare che nel paese che ha inventato la notazione musicale e il melodramma la funzione educativa della musica sia tanto svalutata, eppure è così, praticamente da sempre. I primi cenni all’educazione musicale (essenzialmente intesa nella forma del canto corale) compaiono nel 1885, con l’introduzione a livello facoltativo di “esercizi di canto corale”. Nel 1923, con la riforma Gentile il canto diventa una materia nelle scuole elementari. La legge istitutiva della scuola media (L. 1859/1962) inserisce la musica come materia obbligatoria solo al primo anno. Occorrerà attendere il 1977 perché l’Educazione musicale divenga obbligatoria per tutto il triennio. Con la riforma Gelmini l’istituzione dei licei musicali (2010) segna una svolta nel modo di concepire la disciplina, assorbita in un’ottica professionalizzante che di riflesso segna l’azzeramento della cultura musicale nel resto dei licei.

La scuola italiana stretta fra l’ideale umanistico da un lato e la necessità di preparare i futuri medici, avvocati e ingegneri dall’altro, non ha mai compreso la rilevanza formativa della musica. Il risultato è una triste condizione di ignoranza diffusa e trasversale che appartiene sia ai ragazzi che ai docenti. Eppure proprio nella scuola di oggi, orientata alla centralità del discente e alle esperienze significative più che alle nozioni, non dovrebbe risultare difficile spiegare il Romanticismo attraverso Beethoven e Schubert, i turbamenti adolescenziali con le parole di Cherubino, o il Risorgimento ascoltando Verdi. Quello che continua a mancare nei ciclici riformatori della scuola è la consapevolezza che nell’epoca tecnocratica, dei saperi rapidi, utilitaristici e specialistici, essa non deve inseguire i cambiamenti sociali, non deve diventare una palestra delle sperimentazioni e delle rotture, ma il luogo dove si matura una visione del mondo senza appiattirsi sul presente. E questo si può fare solo valorizzando il nostro patrimonio più prezioso, cioè la Tradizione.

 

                                                                                                                                                Marco Cappuccini

 

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