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Utopia e finzione

Tutta l'utopia è finzione, ma non tutta la finzione è utopia. Che cosa rende l'utopia un tipo speciale di narrativa? Qual è il carattere distintivo che ci permette di dire che le opere di Tolkien o Isaac Asimov appartengono al registro della (science) fiction e quelle di Platone, Thomas More o Charles Fourier all'utopia? È possibile rispondere a questa domanda attraverso una rapida panoramica (non esaustiva) di tre delle utopie più famose, e quindi mostrare che ciò che costituisce la specificità della letteratura utopica può essere inteso come una tensione tra un "non luogo" (u-topia) e un "buon luogo" (eu-topia), una tensione che si esprime sempre a partire da uno scarto mobilitante tra ciò che è e ciò che potrebbe essere. Ciò dimostra quale sia la posta in gioco nell'utopia: nessuna utopia è "neutra" o "indipendente" dal suo contesto di scrittura. Questo significa che l'oggetto dell'utopia (e il suo interesse per il lettore) non è tanto il mondo utopico descritto, quanto la critica che la sua semplice presentazione rivolge, in negativo, al mondo in cui vivono l'autore e il lettore.

Nella Repubblica Platone si propone di definire i principi dell'organizzazione politica che dovrebbe governare la Kallipolis, la sua città ideale. A tal fine, Platone mette in scena un dialogo tra Socrate e vari interlocutori (Glaucone, Trasimaco e altri) che costituiscono uno spaccato fortemente rappresentativo della società ateniese della fine del V secolo. La “bella città” viene descritta come strutturata intorno a tre classi, ciascuna con una funzione e regole sociali particolari: la classe dei guardiani, responsabili della difesa della città; la classe dei re-filosofi, che gestiscono la città; e infine la classe degli artigiani e dei contadini, che si occupano della vita economica e della produzione. Nell'utopia platonica, l'Idea del Bene (da cui derivano le altre idee), deve organizzare la città ideale. E i filosofi sono i tecnici, gli operatori pratici che, grazie al loro sapere, potranno tradurre l'Idea del Bene in realtà. Se si dà al termine “utopia” il significato di progetto che ancora non ha un suo luogo proprio, ma si propone di rintracciarlo e di occuparlo, il filosofo ateniese è evidentemente il primo costruttore di utopie, anzi colui che pone la produzione di un’utopia come atto inaugurale della riflessione filosofica sulla politica, anticipando in un certo senso anche l’invenzione del termine.

La descrizione di Platone della città ideale avrà molte riproposizioni. Una in particolare avrà un enorme successo nel momento in cui i moderni sviluppi del principio di proprietà faranno apparire il mondo ideale come un luogo libero dagli eccessi autorizzati dalla proprietà privata. Nel 1516, quando in Inghilterra il movimento delle enclosures stava minando le tradizionali pratiche di condivisione della terra comunitaria, Thomas More nel suo libello Utopia recupera il principio platonico della proprietà comune. Il filosofo inglese descrive, attraverso la storia del viaggiatore Raffaele Itlodeo, la società ideale come una comunità dell'abbondanza, senza proprietà privata, dove tutte le terre sono tenute in comune e la produzione è distribuita equamente dall'Assemblea repubblicana, che riunisce i rappresentanti delle città dell'isola (e prende il posto dello Stato). More descrive effettivamente come potrebbe essere l'Inghilterra con istituzioni migliori. Per far sì che al suo lettore non sfugga la metafora, l’autore arriva a dare all'isola di Utopia le stesse caratteristiche fisiche dell'Inghilterra dell'epoca. La descrizione di questa "Inghilterra trasfigurata" ha una doppia funzione: da un lato, l'isola di Utopia illustra un ordine politico ideale, mentre dall'altro questo regime politico plausibile costituisce una critica acuta alla società inglese segnata dalle enclosures. La proprietà comune di Utopia e l'uguaglianza politica che ne deriva per i suoi abitanti dimostrano più efficacemente di qualsiasi pamphlet o atto d'accusa l'ingiustizia delle disuguaglianze politiche ed economiche che caratterizzavano l’Inghilterra del primo Cinquecento.

utopia

 

Come Platone e Thomas More, coloro che saranno chiamati i "socialisti utopisti" immagineranno nuovi modelli di società possibili e desiderabili, ciascuna rispondente a modo suo alle sfide del proprio tempo. Considerando assurdo e dannoso per l'uomo un sistema sociale basato sulla competizione e sullo sfruttamento (la società liberistica), Charles Fourier propone come alternativa una società armonica, dove non si scontrino gli interessi individuali. Per realizzare pienamente l’uomo occorre dare piena soddisfazione alla sua natura passionale. Le passioni sono le molle attrattive naturali che, se assecondate, possono far rientrare l’uomo nel piano naturale e divino dispiegato per la specie umana. L’obiettivo è abbandonare l’unidimensionalità imposta dalla società del profitto e dell’alienazione a tutti i livelli: nel lavoro, attraverso una variazione libera e continua delle occupazioni, e, in ambito sessuale, abolendo la famiglia e istituendo una completa libertà dei comportamenti, sia per l’uomo che per la donna.

Cosa può allora permetterci, dopo questa breve rassegna, di definire l'utopia e di distinguerla dalla finzione? Potremmo rispondere che laddove la finzione si affranca più o meno completamente dalla realtà, l’utopia ha la caratteristica di svilupparsi in uno spazio possibile, in un luogo "plausibile" che ordina ciò che è dato in un modo, migliore, che ancora non esiste. In questo senso, possiamo intendere l'utopia come un possibile e desiderato “qui-altrove”. È un “posto buono” (eu-topia) che si costruisce in un “non luogo” (u-topia) – un luogo dove questo principio superiore non esiste (ancora) –, ma sempre da un “luogo”, un contesto dal quale assume valore e appare legittimo e auspicabile. L'utopia, per definizione, non si realizza, ma è realizzabile e merita di essere tentata.

Possiamo imparare molto sulle nostre società studiando le utopie che producono. La diversità dei pensieri utopici apparsi negli ultimi trent'anni riflette la molteplicità degli approcci critici alla modernità. Ad esempio l'utopia di una tecnica al servizio di un progetto umano “conviviale” di Ivan Illich traduce il rischio di una sottomissione dell'uomo alla tecnica. L'indennità universale contesta il posto centrale e obbligatorio che il salario ha acquisito nelle nostre società, immaginando un mondo in cui il lavoro è una scelta libera e volontaria. L'utopia del filosofo Cornelius Castoriadis di una società autonoma, cioè capace di darsi collettivamente e in modo diretto e critico le proprie leggi, esprime una critica viva alla depoliticizzazione e al disinteresse dell'individuo contemporaneo. Infine, il fatto che le utopie di Fourier o di Thomas More stimolino ancora oggi la nostra riflessione politica (mentre l'utopia di Platone ci sembra o antiquata o paradossalmente realizzata dal potere di esperti e tecnocrati) ci insegna che le carenze che essi criticarono ai loro tempi ci riguardano ancora, e che le loro utopie sono ancora nostre. Se le possibilità che queste utopie prospettano ci sembrano ancora desiderabili, allora dobbiamo mobilitarci per far sì che l’utopia, come disse Victor Hugo, sia la realtà di domani.

                                                                                                                          Marco Cappuccini

 

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